Negli ultimi anni, il panorama della ricerca scientifica ha vissuto un’accelerazione senza precedenti in ambito di editing genomico, la pratica di modificare il DNA in maniera mirata. Complice l’innovazione tecnica e l’aumento vertiginoso delle conoscenze sulle basi molecolari delle malattie umane, l’editing genetico si è imposto come uno dei temi centrali del dibattito scientifico, ma anche filosofico, legale e sociale. Dalle potenzialità terapeutiche per patologie genetiche rare fino all’idea di intervenire su embrioni umani per prevenire malattie complesse, le questioni etiche e gli effetti a lungo termine costituiscono sfide ancora difficili da risolvere.
La tecnologia CRISPR-Cas9, sviluppata inizialmente come strumento biotecnologico a partire da un sistema immunitario batterico, ha rivoluzionato in tempi rapidissimi l’idea stessa di riparazione genetica. Grazie a una piccola guida di RNA che riconosce in modo specifico la sequenza da tagliare, l’enzima Cas9 è in grado di operare tagli mirati sul DNA, consentendo di sostituire o disattivare geni difettosi. A questa piattaforma si sono aggiunte varianti più sofisticate – prime editing, base editing, Cas12, Cas13 – che aumentano la precisione e riducono gli errori, ossia i tagli o le modifiche involontarie su regioni del DNA non volute.
Oltre alle applicazioni di correzione di specifiche mutazioni monogeniche per malattie come la distrofia muscolare di Duchenne, l’anemia falciforme e la beta-talassemia, l’interesse dei ricercatori si è esteso al potenziamento di caratteristiche umane e alla terapia cellulare nel trattamento di tumori, per esempio, sfruttando linfociti T modificati, come nelle terapie CAR-T. Il passo più cruciale – e di gran lunga più controverso – riguarda però le possibili modifiche in embrioni o linee germinali – ovociti e spermatozoi-, che si trasmetterebbero alle generazioni future.
L’editing somatico agisce su cellule che non verranno trasmesse ai discendenti, come quelle del fegato, del sangue o del sistema immunitario di un paziente. Ha un impatto limitato all’organismo trattato e non alle generazioni future.
L’editing della linea germinale interviene sul DNA di embrioni, ovuli o spermatozoi. Gli effetti di questi interventi si propagherebbero nei figli e, potenzialmente, nei nipoti, con la prospettiva di riscrivere in modo permanente l’eredità genetica umana.
Mentre l’editing somatico è generalmente accettato e già oggetto di trial clinici in diverse malattie rare, quello della linea germinale è tuttora vietato o severamente regolamentato nella maggior parte dei Paesi, a causa delle implicazioni etiche, della paura di un ritorno all’eugenetica e dei possibili effetti imprevedibili sull’evoluzione umana.
Se correggere una singola mutazione per curare una malattia monogenica rappresentava un traguardo straordinario, raggiunto, ad esempio, con il primo via libera all’uso clinico di CRISPR per l’anemia falciforme, oggi si fa strada l’editing di più varianti genetiche contemporaneamente per abbattere la probabilità di sviluppare malattie comuni come diabete, malattia di Alzheimer, cardiopatie coronariche, schizofrenia, disturbi depressivi maggiori.
Uno studio pubblicato su Nature nel 2025 da Peter M. Visscher e colleghi ha mostrato come l’editing poligenico potrebbe abbassare drasticamente la probabilità di malattie multifattoriali. In particolare, simulazioni e modelli matematici indicano che modificare un piccolo numero di varianti genetiche “fortemente” associate a malattie complesse potrebbe, in linea teorica, ridurre di un ordine di grandezza il rischio individuale di svilupparle. Ad esempio, fino a passare da un 5% di rischio di Alzheimer a meno dello 0,6%, oppure ridurre dal 6% allo 0,1% l’incidenza di patologie coronariche. Numeri ancora più marcati se si considera la possibilità di intervenire su varianti rare ma protettive per i livelli di colesterolo LDL o trigliceridi.
Lo scenario descritto in queste ricerche – definito Heritable Polygenic Editing (HPE) – è ancora speculativo, ma potrebbe diventare tecnicamente realizzabile entro i prossimi 30 anni, data la rapida evoluzione degli strumenti di gene editing, con modalità di “multiplexing” che permetterebbero di intervenire su decine o centinaia di loci contemporaneamente.
Le stesse simulazioni degli autori avvertono, tuttavia, che molti elementi potrebbero rendere meno effettivo o più rischioso l’editing poligenico.
Pochi loci noti e incertezza sulle cause reali: per malattie complesse, spesso si conoscono migliaia di varianti associate, ma non tutte sono davvero causali. Se si edita un allele che crediamo cruciale ma che in realtà non lo è, il beneficio scende; in compenso, si accumulano mutazioni che potrebbero causare danni imprevisti.
Effetti pleiotropici: un gene può influire su più tratti. Eliminare “alleli di rischio” per una malattia potrebbe aumentarne un’altra, o generare squilibri evolutivi difficili da calcolare.
Fattori ambientali: stile di vita, alimentazione, abitudini, contesto sociale e psicologico giocano un ruolo determinante nella comparsa di molte malattie.
Ridotta incidenza a livello globale: se l’editing dovesse rimanere appannaggio di pochi (solo attraverso costose pratiche di fecondazione in vitro) il suo impatto sulla popolazione generale sarebbe limitato. Il rischio è di ampliare le disuguaglianze, anziché ridurle.
La parola eugenetica evoca i drammatici esperimenti di selezione forzata dei primi decenni del Novecento, con politiche di sterilizzazione coatta o vere e proprie persecuzioni razziali, culminate nei crimini nazisti. Oggi, quando si teme che l’editing genomico porti a una nuova eugenetica, ci si riferisce soprattutto alla possibilità che si scelgano o modifichino embrioni non più solo per evitare gravi malattie, ma anche per migliorare tratti come l’altezza, le capacità cognitive o l’estetica. In alcuni contesti si parla di positive eugenics se, anziché escludere i portatori di tratti indesiderati, si incentiva il ricorso a interventi genetici selettivi.
Il confine tra prevenzione delle malattie e potenziamento è scivoloso. Lo stesso concetto di benessere e salute dipende dal quadro culturale e valoriale di riferimento. Come sottolineano gli esperti, evitare una nuova eugenetica richiede che queste tecnologie siano volontarie, non imposte dallo Stato o da norme sociali oppressive, e che si eviti di stigmatizzare chi non vi ricorre o, all’opposto, chi sceglie di farlo per ragioni terapeutiche.
Uno dei temi più scottanti riguarda l’accessibilità economica a procedure mediche di editing germinale: se solo le fasce più abbienti potranno permettersele, i portatori di malattie genetiche potrebbero essere relegati ai gradini più bassi della scala sociale. Questo scenario rischia di alimentare discriminazioni e di accentuare le ingiustizie già esistenti.
D’altra parte, se l’uso fosse ampio e accessibile, alcune malattie molto diffuse potrebbero ridursi sensibilmente, con conseguenti risparmi per il sistema sanitario e un aumento del benessere collettivo. Un grande paradosso: più la tecnologia funziona, più diventa importante stabilire regole chiare su come e quando utilizzarla.
Nel 2018, il ricercatore cinese He Jiankui annunciò la nascita di due gemelline con genoma modificato per rendere le piccole teoricamente resistenti all’HIV. La notizia suscitò un’ondata di sdegno internazionale: la comunità scientifica condannò l’iniziativa come prematura, non etica e in violazione di ogni protocollo di sicurezza; inoltre, erano poco chiari i reali consensi dei genitori coinvolti. He Jiankui fu poi arrestato e condannato per pratica medica illegale in Cina.
Uscito di prigione, a fine 2024, come riportato da diverse testate, lo scienziato ha dichiarato di voler riprendere la ricerca sull’editing del genoma germinale umano, suscitando nuovi timori. Non è chiaro se e come riuscirà a proseguire i suoi studi, ma il suo ritorno ha riportato in primo piano i rischi concreti di sperimentazioni isolate, lontane da un contesto di trasparenza e regolamentazione condivisa. Il caso He Jiankui mostra perfettamente la discrepanza tra l’avanzamento tecnologico e l’assenza di un quadro normativo ed etico che sia capace di dare risposte globali.
Nel 2024, il Sudafrica ha aggiornato le proprie direttive in materia di ricerca sanitaria, aprendo di fatto – almeno sulla carta – alla possibilità di autorizzare l’editing del genoma ereditabile. Le linee guida chiedono giustificazione scientifica e medica chiara per evitare o curare malattie gravi e garantire che i benefici superino i rischi, nonché la trasparenza dei protocolli di ricerca e la supervisione etica.
Questa scelta ha attirato molta attenzione: da un lato, segnala l’intento di un Paese di non voler ignorare i rapidi progressi dell’editing e di volerne regolare l’uso. Dall’altro, preoccupa chi teme che ciò possa preludere a un via libera più ampio del previsto, magari spinto da interessi commerciali o dalla pressione dei laboratori desiderosi di distinguersi. Se il Sudafrica diventasse effettivamente la prima nazione a consentire esplicitamente l’editing germinale, si aprirebbe uno scenario di turismo genetico verso i centri di ricerca o cliniche locali, replicando fenomeni già visti con altre procedure mediche non consentite altrove.
Parallelamente alla crescita delle tecniche di gene editing, si assiste a un’esplosione dell’intelligenza artificiale. Gli algoritmi di deep learning sono già utilizzati per: analisi di grandi set di dati genomici – prevedere la funzionalità di determinate mutazioni, individuare in anticipo le possibili varianti fuori bersaglio in un protocollo di editing e ridurre così i rischi di errori; progettazione di nuove proteine e nuove forbici genetiche – oltre alla proteina Cas9, la ricerca mira a trovare e/o progettare enzimi più compatti, più facili da veicolare nelle cellule e meno soggetti a effetti collaterali; studio delle strutture di RNA e delle loro funzioni – modelli IA, simili a ChatGPT ma addestrati su dati biologici, aiutano a prevedere come si ripiegano gli RNA e a capire come ingegnerizzarli affinché siano più stabili o più efficaci.
Secondo diversi esperti, tra cui la stessa Doudna, l’unione di IA e CRISPR potrebbe accelerare la scoperta di farmaci e terapie avanzate, aprendo la via a una medicina di precisione estrema, in cui non si procede più per tentativi, ma si progetta la molecola migliore, il vettore migliore e la modalità d’intervento migliore per ciascun paziente.
Se guardiamo ancora più in là nel futuro, si delineano scenari che appartengono da tempo alla fantascienza, ma che la ricerca scientifica sta prendendo in considerazione:
Estensione estrema della vita: intervenendo sui geni legati all’invecchiamento, sulla stabilità dei telomeri o sui meccanismi di riparazione del DNA, potremmo ipotizzare di rallentare l’orologio biologico umano, rendendo accessibile un’estensione significativa della longevità. Ciò comporterebbe, però, implicazioni enormi per la società, l’economia, la demografia.
Adattamento a condizioni estreme o a nuovi ambienti: in un’ottica di colonizzazione spaziale, c’è chi ipotizza di modificare il genoma umano affinché tolleri meglio radiazioni cosmiche o condizioni di microgravità. Fino a che punto possiamo spingerci, però, prima di rischiare di snaturare l’“umano”.
Xenotrapianti e organismi ibridi: l’idea di produrre organi umani in modelli animali (per esempio suini geneticamente modificati) è già in sviluppo. Ciò potrebbe ridurre la penuria di organi per trapianti, ma avvicina anche la prospettiva di chimere sempre più ibride tra uomo e animale, con interrogativi etici ancora più complessi.
Occorre definire limiti chiari all’editing germinale. La maggior parte degli esperti concorda che la priorità dovrebbe essere l’applicazione terapeutica su singoli pazienti e, solo dopo rigidi test di sicurezza, considerare interventi sulla linea germinale in casi di patologie gravi, incurabili e con forte base genetica.
Occorre stabilire sistemi di supervisione etica: i comitati locali di bioetica, ma anche organismi internazionali, dovrebbero coordinarsi per vigilare su trial clinici e protocolli di ricerca, evitando che si ripetano episodi come quello di He Jiankui.
Occorre evitare derive commerciali: il rischio che aziende private spingano per applicazioni di “potenziamento” su richiesta di facoltosi clienti non va sottovalutato. Servono normative stringenti e una discussione aperta a livello politico e sociale.
Occorre arantire equità di accesso. Se l’editing rimane un privilegio economico, si creerà un solco ancora più netto tra “geneticamente avvantaggiati” e “non modificati”. È essenziale prevedere misure che assicurino a tutti coloro che ne hanno necessità terapeutica di poter accedere alla tecnologia.
Necessario è investire in informazione e dibattito pubblico: è indispensabile favorire la comprensione del tema da parte dei cittadini, per evitare che la questione si riduca a sensazionalismo o a mere paure. Le decisioni dovrebbero essere condivise e partecipate, non lasciate al solo mondo scientifico o ai governi.
L’editing genetico, in particolare la sua evoluzione verso la modifica poligenica del DNA umano, ci pone la concreta prospettiva di sconfiggere o ridurre fortemente la prevalenza di patologie che colpiscono milioni di persone, come il diabete o l’Alzheimer, la possibilità di estendere la portata di terapie cellulari personalizzate, di correggere malattie rare e di affrontare anche aspetti più sottili, come la predisposizione a disturbi psichiatrici e il rischio, tuttavia, di creare nuove diseguaglianze, di incorrere in effetti collaterali non noti e di oltrepassare la linea che separa la cura dal miglioramento artificiale di tratti umani.
Oggi l’attenzione è tornata alta dopo la pubblicazione dei dati sul potenziale dell’editing poligenico (Visscher e colleghi) e in seguito alle vicende di He Jiankui e alle aperture normative in Sudafrica. A tutto ciò si aggiunge la riprogettazione dell’editing stesso grazie all’IA, in grado di accelerare la scoperta di nuovi enzimi e di perfezionare ogni passaggio di correzione genetica.
Come molte volte è accaduto nella storia della scienza, la velocità con cui le innovazioni diventano praticabili rischia di superare il ritmo con cui le società definiscono regole ed etiche condivise. L’ideale sarebbe trovare un equilibrio fra la spinta alla ricerca, che promette di salvare vite e alleviare sofferenze, e la necessità di tutelare la dignità e i diritti fondamentali degli individui, compresi quelli non ancora nati. Il futuro della nostra specie potrebbe dipendere anche da come risponderemo a questa domanda cruciale: fin dove possiamo e vogliamo spingerci nel riscrivere il nostro genoma?