Fino a cinque mesi fa la crisi yemenita è stata erroneamente percepita a livello internazionale come una gestibile questione regionale, ma di fatto oggi gli Houthi sono protagonisti dell’allargamento del conflitto in Medio Oriente nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden in chiave antisraeliana.
Gli attacchi della milizia yemenita, armata e presumibilmente manovrata da Teheran, rappresenta oggi una minaccia per il commercio marittimo globale.
Come l’Iran, lo slogan Houthi richiede lo sterminio di Israele. In questo modo gli Houthi
completano l’accerchiamento di Israele da parte dell’Iran attraverso il suo “Asse di Resistenza”.
Hamas è posizionata a ovest di Israele nella Striscia di Gaza, Hezbollah a nord, in Libano, le milizie sciite appoggiate dall’Iran sono posizionate a est in Iraq e a nord-est in Siria e gli Houthi sono posizionati a sud, nello Yemen e nel Mar Rosso.
L’origine dell’ampliamento del conflitto è datata 14 novembre 2023, giorno in cui i ribelli yemeniti hanno dichiarato che avrebbero bloccato ogni nave battente bandiera israeliana, salvo allargare la minaccia ad ogni imbarcazione legata allo stato ebraico il 9 dicembre in nome della difesa rispetto alle reazioni congiunte di Stati Uniti e Gran Bretagna nell’area. Il coinvolgimento di Teheran nel processo decisionale degli houthi riflette infatti la convergenza Houthi-Iran vs Israele-Usa, mentre il complicato rapporto con i vicini sauditi riflette da una parte le tensioni protrattesi durante i dieci anni di guerra civile, dall’altra un conflitto parallelo, di cui l’Iran è principale portavoce, relativo al rifiuto verso una transizione basata su un modello di sviluppo occidentale imposto ai paesi arabi che comprende anche un ordine di relazioni pacifiche, comprese quelle con Israele.
I pasdaran hanno venduto ai ribelli tecnologia bellica di vario tipo tra cui sistemi offensivi e batterie antiaeree. Da qualche mese a questa parte la milizia yemenita ha dimostrato di avere accesso ad un robusto arsenale e di poter colpire con un’infinità di sistemi e su qualsiasi distanza con missili balistici e droni kamikaze. Secondo Elizabeth Kendall, esperta di Yemen contemporaneo, i preparativi per gli attacchi marittimi nel mar Rosso erano cominciati nelle settimane immediatamente precedenti agli attacchi di Hamas del 7 ottobre con la militarizzazione delle isole del mar Rosso da parte degli Houthi e la consegna di armi ai siti costieri, ed è quindi possibile che gli Houthi facessero parte di un’escalation incrementale pianificata lungo l’asse di resistenza, calibrata per fare in modo che il mondo occidentale subisse le ripercussioni delle azioni di Israele.
Dall’apertura del Canale di Suez nel 1869, il Mar Rosso ha guadagnato sempre maggiore importanza strategica. Il canale di Suez collega il mar Mediterraneo con il mar Rosso e per questo è diventata un’arteria sempre più importante del commercio globale. Si tratta di uno di quei ‘colli di bottiglia’ il cui blocco – a causa di guerre o crisi sul fronte della sicurezza – può avere gravi ripercussioni sulle catene di approvvigionamento globali, come dimostrato nel 2021 dall’incagliamento della Ever Given nel Canale di Suez. In particolare, lo Stretto di Bab el-Mandab che separa lo Yemen dall’Africa orientale – e conduce a nord verso il Mar Rosso e il Canale di Suez – è uno dei più cruciali “choke points” delle rotte internazionali.
I ribelli Houthi attaccano quotidianamente le navi commerciali che transitano attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb e costringono il traffico navale globale ad allungare di circa dieci giorni il viaggio delle merci da oriente a occidente seguendo la tratta tracciata da Magellano. Già oggi, secondo l’International Chamber of Shipping, il 20% delle navi portacontainer del mondo evitano il Mar Rosso e navigano invece attorno al Capo di Buona Speranza sulla punta meridionale dell’Africa.
A causa degli attacchi Houthi nel Mar Rosso il traffico navale della zona è in tilt. Tali attacchi hanno minato la regolarità dei rifornimenti di merci, innescando un aumento dei costi che sta impattando negativamente sul sistema di trasporti e sul commercio internazionale.
I costi di trasporto di un container “tipico” da Shanghai a Los Angeles sono aumentati del 95% e nello stesso intervallo di tempo i costi di trasporto da Shanghai a Genova sono più che quadruplicati nel giro di un mese e mezzo (+350%). A metà gennaio il traffico di portacontainer, petroliere e metaniere dallo stretto di Bab el-Mandeb si era ridotto di quasi la metà (-46%), riflettendosi negativamente anche sul traffico dal canale di Suez più a nord (-35%).
Gli effetti della crisi sull’economia globale e sulle catene di approvvigionamento sono già ben visibili – secondo ISPI allo stato attuale l’Egitto rischia di vedere il proprio PIL ridursi dello 0,8% – e a questo punto vale la pena chiedersi se potranno estendersi anche a un ambito altrettanto delicato: quello dell’energia.
La posizione dell’Italia, fortemente dipendente dal commercio marittimo, rimane una questione importante. Il Belpaese dipende da Suez per il 40% del proprio import-export e a causa della crisi nel mar rosso risente non solo di ritardi nelle consegne e crescita generalizzata dei prezzi delle merci, ma anche della perdita di competitività commerciale dei principali porti del mediterraneo – in particolare quelli di Genova, Trieste e Gioia Tauro, principali scali nazionali per container e carichi energetici – che, essendo un ponte tra Europa, Asia e Africa, hanno subito un drastico calo dei volumi di transito delle merci. Il rischio è infatti che le navi in fuga dal mar Rosso, dopo aver passato il Capo di Buona Speranza, puntino direttamente a Nord verso i porti di Gibilterra e Rotterdam, tagliando fuori i sistemi portuali italiani con inevitabili ripercussioni in termini di perdita di posti di lavoro e aggravio di costi.
Le risposte occidentali si sono dimostrate finora contrastanti nelle intenzioni e poco fruttuose.
Gli Stati Uniti, con l’obiettivo di proteggere il commercio nel mar Rosso e forti del loro storico
coinvolgimento nell’area, hanno costituito sotto la loro egida l’operazione “Prosperity Guardian”, iniziativa motivata dalla consapevolezza dell’importanza strategica dell’area e dall’impegno storico degli Stati Uniti nella regione, che risale a decenni di interventi politici, militari ed economici. Nel corso di gennaio le marine americana e britannica hanno quindi effettuato raid aerei contro obiettivi Houthi nello Yemen per scoraggiare ulteriori attacchi, ma a causa della scarsa efficacia dell’iniziativa, gli stati europei hanno deciso di adottare un approccio alternativo.
La presa di distanza dell’UE è avvenuta inizialmente attraverso il consolidamento dell’operazione “Atalanta” – prima storica missione navale comunitaria, avviata nel 2008 con l’obiettivo di contrastare la minaccia della pirateria nel Corno d’Africa per garantire la libertà di commercio – e, più di recente, con l’istituzione dell’operazione “Aspides”, il cui comando operativo è stato affidato al cacciatorpediniere italiano Caio Duilio. La missione europea “sarà di natura difensiva ma armata” ha dichiarato il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, aggiungendo poi che è improbabile che la missione preveda attacchi in territorio yemenita perché l’obiettivo della missione riguarda la protezione dei mercantili in transito dal tratto di mare che va dal mar Rosso e arriva fino allo stretto di Hormuz. L’iniziativa della missione Aspides si inserisce poi nell’ampio contesto della pianificazione di operazioni di difesa comune per l’Ue, un passo avanti nel processo di integrazione europea in materia di difesa e gestione delle crisi.
L’Italia aveva fortemente insistito, assieme a Francia e Germania, affinché ci fosse un’operazione militare europea strettamente difensiva, e questo aveva sin dal principio attirato le antipatie dei vertici dei ribelli yemeniti i quali, già nelle passate settimane, avevano detto che, assumendo il comando di Aspides, “l’Italia mette a repentaglio la sicurezza delle sue navi militari e commerciali”. Sono già tre i droni abbattuti dalla Caio Duilio in attuazione del principio di autodifesa, due dei quali intercettati nella notte tra l’11 e il 12 marzo mentre il cacciatorpediniere non era impegnato direttamente in un’attività di scorta a navi civili.
Al momento non sono chiari i costi dell’operazione. Le informazioni divulgate da alcuni giornali sono contraddittorie e le stime generali oscillano intorno ai 40 milioni di euro. Tuttavia, è importante notare che, secondo quanto specificato dal Sottosegretario alla Difesa Matteo Perego di Cremnago, negli atti della Camera tali costi non riguarderebbero esclusivamente la nuova Operazione Aspides, bensì includerebbero anche la proroga di altre missioni attive nella stessa area. Pertanto, il totale dei costi potrebbe essere influenzato da una serie di fattori e comprendere diverse operazioni in corso. In ogni caso, resta evidente che per l’economia europea sia necessaria la massima stabilità dei collegamenti che dall’oceano Indiano portano al mar Mediterraneo, e non è un caso che l’Italia sia stato il paese che più ha insistito affinché fosse organizzata un’operazione europea di difesa comune dal momento che, considerando il peso dell’import-export sul PIL nazionale (40%), nello scenario attuale è probabilmente il paese che ha più da perdere.